Garibaldi 150° anniversario dell’Unità d’Italia: 17 marzo1861-17 marzo 2011


Il Governo informa: «Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, il 5 maggio dallo scoglio di Quarto da cui mossero nel 1860 i Mille di Garibaldi, ha dato ufficialmente il via alle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia nei luoghi della memoria storica». Caro Direttore, mi chiedete una nota su Garibaldi ed io ve la mando volentieri, un po’ rapsodica, dopo aver registrato negli inserti risorgimentali del Corriere della Sera l’abbondanza di retorica per un capitano di ventura dell’Ottocento che addirittura prima di guerreggiare per i Savoia s’era proposto al servizio dello Stato della Chiesa. Infatti, da Montevideo il 12 ottobre 1847, Garibaldi chiedeva al Nunzio apostolico in Uruguay di comunicare al Pontefice la sua ambizione: «Se ci sarà dato di venir in aiuto dell’opera redentrice di Pio IX, non crederemo di pagarla troppo cara, versando tutto il nostro sangue. Se la Signoria vostra illustrissima e rispettabilissima crede che la nostra offerta possa riuscire gradita al sovrano Pontefice, che Ella la deponga ai piedi del suo trono. Non l’ offriamo già per la puerile pretesa che il nostro braccio possa essergli necessario: noi sappiamo che il trono di S. Pietro riposa su solide basi e non possono scuoterlo né abbatterlo gli sforzi umani: d’altronde il nuovo ordine di cose conta numerosi difensori che sapranno energicamente respingere le ingiuste aggressioni dei suoi nemici: ma siccome l’opera deve essere ripartita fra i buoni ed il faticoso lavoro affidato ai coraggiosi, fateci l’onore d’annoverarci fra questi». Come storico del presente, in quanto giornalista, e come studioso di storia dotato anche di un buon archivio di carte originali (tra l’altro, ho già pubblicato su “Libero” una curiosa lettera personale di Giolitti desideroso di liberarsi dei suoi Buoni di Stato, nello stesso tempo in cui invitava gli Italiani a tenerseli e a rinnovarne l’acquisto per sostenere le spese militari), sono un osservatore abbastanza smaliziato delle antiche vicende nazionali, delle quali comunque non discuto animosamente l’esito, come fanno gli amici neoborbonici, essendo magari più interessato ai preliminari. Credo che abbiano maggiori meriti storici le culottes (mutande) di Virginia Oldoini Contessa di Castiglione (che andò a letto con Napoleone Terzo per fargli sostenere la causa nazionale italiana), che non la mitizzata camicia rossa di Peppino Garibaldi. Ma nessuno oserebbe esporre la lingerie di Virginia al balcone per festeggiare l’anniversario dell’Unità d’Italia, anche se penso che l’amabile premier Berlusconi, in cuor suo, sarebbe tentato di farla garrire al vento sul pennone di Palazzo Chigi. Si qualifica antico tutto ciò che ha superato i cento anni, come il mobilio neoclassico o i soprammobili liberty, le chicchere della bisnonna e per l’appunto Garibaldi, personaggio di una filastrocca, iconoclasta nella sua sconclusionatezza, che le vecchie zie più scanzonate ripetevano ai nipotini calabresi dell’era agropastorale: Garibaldi improbabile venditore di pomodori sull’Aspromonte («supa u munti, chi vindìa pumadora…»). Questa celia priva di senso era il controcanto sudista alle strofe nordiste agiografichePallavicini di Priola. S’era spinto un po’ troppo in avanti rispetto alle briglie di Rattazzi,di Cavour e di Vittorio Emanuele, già sollecitato da Napoleone III a combattere i «ribelli» e a «distruggere Garibaldi». I Mille sono l’antecedente scarlatto, altrettanto scalcinato ma meno numeroso, delle camicie nere della Marcia su Roma, anche se il grido garibaldino «O Roma o morte!» sarebbe stato sostituito sessantadue anni dopo dal caustico Mino Maccari nel più prosaico «O Roma o Orte» che riassume meglio il corto respiro italiano. Della botta al malleolo (la palla gli fu estratta tre mesi dopo, il 23 novembre, e si trova esposta al Vittoriano; il povero bersagliere regio Ferrari, che fece il suo dovere sparando al mito, cadde invece in disgrazia presso i patrioti repubblicani e socialisti), che costò al Generale un anno di convalescenza, rimane traccia nella relazione dettagliata dei tre chirurghi della spedizione garibaldina che lo curarono per primi, Enrico Albanese, Pietro Ripari e Giuseppe Basile (autori questi ultimi, nel 1863, di due distinti volumetti sulla storia della ferita). La cartella clinica fu annotata giorno per giorno dai medici, che si consultarono spesso per lettera con il rinomato anatomista fiorentino di origine forlivese Ferdinando Zannetti, già combattente nella Prima Guerra d’Indipendenza e poi senatore del Regno. Lo scambio epistolare con Zannetti, unitamente alle varie relazioni mediche e ad altri documenti inediti, è stato pubblicato dal Consiglio Regionale della Toscana in un volumetto edito da Polistampa con il titolo «La ferita di Garibaldi ad Aspromonte». Ne vien fuori un quadro pieno di deferente attenzione verso l’illustre piede, vera reliquia laica dell’italico Stivale. Per il resto, è inutile lamentarsi se la Calabria non sia stata inserita nel programma delle iniziative per il centocinquantenario (1861-2011) dell’Unità d’Italia. Non dimentichiamo che gli spari dei bersaglieri sabaudi contro i “ribelli” garibaldini dimostrarono il dualismo e la contraddizione fra le due anime del Risorgimento italiano e dello Stato unitario, nessuna delle quali aveva carattere e filosofia meridionali, nonostante l’adesione anche pratica di gruppi di volenterosi calabresi e del Sud in genere alle sollevazioni antiborboniche. Rimane puramente didascalico e «didattico» il ferimento del Generale sotto un pino di Serrapetrulli di Gambarie d’Aspromonte (là dove si trova il Cippo Garibaldi, solitario come una sconfitta, evidentemente non riconosciuto dalle celebrazioni unitarie come luogo di memoria storica), che gli causò un’artrite che ridusse le sue abilità di combattente (anche se non le sue smanie sessuali, proseguite perfino da pensionato di Stato nel ritiro di Caprera, dove si dedicò alla cura degli ortaggi, ai fianchi delle governanti, alla sua amica inglese Emma Claire Collins e ai suoi cani, uno dei quali chiamato «Aspromonte »). «Didattico», perché? Ve lo spiego in poche parole: nel 1862 in Aspromonte, quando Rattazzi gli mandò a dire: «Fèrmati!», Garibaldi non obbedì, e perciò gli spararono al piede; nel 1866 in Trentino, quando La Marmora gli ordinò: «Fèrmati!», lui rispose invece «Obbedisco!». Aveva capito l’antifona
(09.05.2010)
Francesco Caridi






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